di Laura Salvioli
L’ultimo film di Luca Guadagnino è uscito nelle sale italiane il 17 aprile ed un film che vi farà viaggiare in un trip infinto a cui non tutti potrebbero essere pronti. Il film si ispira all’omonimo romanzo di William S. Burroughs, uno dei massimi esponenti della beat generation, che venne pubblicato postumo del 1985. Il romanzo, peraltro, è incompiuto o almeno questo sostiene parte della critica, contrariamente a quello che ritiene Guadagnino, che per l’adattamento della sceneggiatura si è rivolto a Justin Kurtzkes, e che sostiene che il romanzo è, invece, completo così com’è. È stato presentato alla ottantunesima edizione del Festival del Cinema di Venezia, ed ha come protagonista un meraviglioso Daniel Craig. Scelta per nulla casuale dato che Craig, come è noto, ha interpretato 007 ed è considerato un uomo virile e mascolino. Craig interpreta William che poi, sarebbe l’alter ego dello scrittore Burroughs, ovviamente, che vaga per Città del Messico avvolto solo dalla sua solitudine e dai fumi dell’alcool. E nel suo vagare si imbatte in Eugene, un ragazzo giovane e bello che lo attrae in un modo incontrollato. Un vero e proprio colpo di fulmine, che lo renderà schiavo di un amore ambiguo ed ossessivo. Guadagnino ama molto rappresentare l’amore in questo modo come una ossessione, un raptus, una passione travolgente, già nel suo secondo film “io sono l’amore”, ci regala un amore di questo tipo, ma meno folle. Ed ancora in “Chiamami col tuo nome” parla di amore, ma sceglie quello adolescenziale, quello che spesso traumatizza. Ed infine, con “Bones and all”, seppure si tratta di nuovo di un amore adolescenziale, ci troviamo di fronte ad un amore formativo, direi quasi evolutivo, che si ciba delle sue esperienze per farci diventare veramente adulti. È come se questo ultimo film fosse il picco massimo del suo climax, l’amore che diventa un viaggio dentro sé stessi, che ci fa vedere lati di noi di cui abbiamo paura. Che ci apre una porta che vorremmo tenere chiusa perché è quella che ci fa entrare nel nostro inconscio. William, infatti, è alla ricerca della Yage, anche detta la pianta della telepatia. E decide di andare con Eugene in Ecuador a cercarla. Lo stile cromatico e visivo scelto dal film mi ha ricordato i quadri di Hopper; esattamente come nelle sue opere abbiamo colori accesi che, stranamente, non trasmettono vivacità, e ambientazioni realistiche ma dal forte eco metafisico. Come a voler rappresentare dei luoghi dell’anima più che dei luoghi del mondo reale.
I quadri di Hopper trasmettono, almeno per me, tanta solitudine come anche questo film. Ma una solitudine che non consiste nell’essere soli fisicamente, ma nel non essere del tutto compresi. Willam ad un certo punto del film, infatti, dice: “è difficile convincere un altro che è davvero parte di te”, lui vorrebbe far capire a Eugene questo concetto tanto che cerca la pianta della telepatia, come accennavo. Vive nell’illusione che con essa potrà parlare con lui senza parlare, perché le parole non sono sempre una forma di comunicazione esatta e puntuale di quello che vorremmo dire. Come ha detto lo stesso Guadagnino in una intervista, non è la storia di un amore non corrisposto ma di due persone che si trovano, si fondono l’una con l’altra, e poi hanno troppa paura di quello che hanno trovato. Il termine “queer” qui è inteso (parafrasando le parole dello stesso regista) come l’idea che ognuno è fragile di fronte al sentimento di amore che prova, che lo fa sentire nudo spaventato, senza difese e lo fa scappare. Si ama veramente riconoscendo sé stessi nell’altro, specchiandosi nell’altro, e non sempre siamo pronti a guadare dentro noi stessi così profondamente. Per Guadagnino l’amore o è radicale o non è. Lo possiamo vedere in quasi tutte le sue opere, come dicevo, ed è affascinante come spesso non sia lui a scrivere i suoi film ma sappia sempre scegliere, puntualmente, storie che seguano la sua visione estrema e senza mezzi termini dell’amore. Anche perché lui è un regista che si fa notare, non ha bisogno di scrivere anche la sceneggiatura, la sua mano sbuca ad ogni fotogramma. È un regista che ha la capacità di prendere una storia scritta da altri e farla sua, con immagini forti e mai banali. Non mi vergogno di dire che questo film mi ha strappato il cuore perché è raro trovare film d’amore che non siano la solita accozzaglia di banalità melense. È un film travolgente, che fa entrare lo spettatore in un trip visivo ed emotivo che potrebbe non piacere a tutti. Per cui non tutto il pubblico è pronto, ma del resto non tutti i film sono fatti per tutto il pubblico. Ed è giusto così.
(22 aprile 2025)
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