di Laura Salvioli
Il 28 maggio è uscito nelle sale italiane il nuovo film di Wes Anderson presentato poco tempo fa al festival di Cannes. Come sempre abbiamo un cast stellare: Benicio Del Toro, Scarlett Jhonson, Michael Cera, Tom Hanks, Bryan Cranston, Williem Defoe, come da tradizione appena Wes chiama nessuna star si tira indietro. Infatti, è ormai noto che il cachet che gli attori ricevono per partecipare ai suoi progetti è sempre esiguo rispetto agli standard di Hollywood. I film di Wes, solitamente, costano tra i 25/30 milioni di dollari ed incassano circa il doppio, quindi, non fanno certo arricchire i produttori. In un paese, come l’America, dove il cinema è, soprattutto, un’industria, Anderson ha una sua nicchia perfetta in cui vive incastonato da anni. E questo cantuccio sicuro che si è “scavato” negli anni lo ha creato grazie alla sua capacità unica di creare dei mondi interi, non dei semplici film.
In questo caso siamo in una zona di guerra perpetua che si chiama, appunto, “la grande Fenicia” ed il nostro protagonista è un miliardario, Zsa-zsa Korda, che hanno tentato di uccidere innumerevoli volte ed è sopravvisto a ben sei incidenti aerei. Tutti lo vogliono morto perché è scaltro e non guarda in faccia a nessuno per arrivare a realizzare i suoi ambiziosi progetti. Ha 9 figli ma considera come sua unica vera erede solo Liesl, la sua unica figlia femmina con cui non ha un gran rapporto e, che, oltretutto, vuole farsi suora. È tutto schematizzato in capitoli in perfetto stile Wes Anderson, ed anche i temi che il regista ama ci sono tutti: famiglie disfunzionali, gravi drammi presentati come se fossero quasi “barzellette”, un’estetica perfetta, rassicurante, simmetrica.
Un gusto retrò che in realtà non si rifà a nessun periodo specifico, perché quella che vediamo è un’epoca che non esiste se non nella mente del regista. Mille oggetti che non solo mai solo oggetti, ma simboli con un loro preciso significato. Come nei “I Tenenbaums” l’oggetto feticcio era la fascia di Björn Borg, in “Il treno per il Darjeeling” il feticcio sono le valigie con le iniziali del padre defunti, qui abbiamo una pipa come collegamento tra il padre assente e la figlia ritrovata. E anche un teschio presente in varie scene, visto che la morte è una tematica che pervade il film. Per il regista texano gli oggetti hanno un valore centrale perché trascendono la loro natura materiale. Esattamente come tutta la cura per l’estetica, che è un tratto distintivo della sua poetica, non è mai fine a sé stessa, così, gli oggetti rappresentano sempre dell’altro. Delle perfette cicatrici che porteremo con noi per sempre e che, irrimediabilmente, ci definiranno. Questa ultima opera di Wes è una vera e propria “commedia funeraria”. In cui con la sua ironia unica e sagace ci parla di morte ma, anche, e soprattutto di vita, di capacità di cambiare, di evolversi di, anche se odio questa parola ormai fin troppo utilizzata a sproposito, di resilienza. Nel vero senso della parola, intesa come la capacità di riprendersi da esperienze traumatiche, non perdendo mai la nostra identità ma, tornando alla nostra forma originaria. Andando sempre avanti anche grazie all’aiuto di qualcuno che ci tende la mano e ci ricorda che sono i rapporti umani e gli affetti che danno un senso alla nostra vita.
(11 giugno 2025)
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