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sabato, Ottobre 18, 2025

Un anno con tredici lune, corpo e solitudine come destino. Le riscoperte di Cinemanostro

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di Bo Summer’s

Quando Rainer Werner Fassbinder realizza Un anno a tredici lune (In einem Jahr mit 13 Monden, 1978), il cinema europeo sta vivendo una delle sue stagioni più radicali, sospeso tra le ultime avanguardie politiche degli anni Settanta e l’avanzare di un riflusso culturale che, presto, avrebbe mutato profondamente lo sguardo sul sociale e sull’individuo. In questo scenario, Fassbinder sceglie un tema che sembra ridurre al silenzio ogni illusione di progresso o di emancipazione: la storia di Elvira Weishaupt, una donna trans che, dopo aver sacrificato il proprio corpo e la propria identità per amore di un uomo che non la ricambia, attraversa una parabola di abbandono, umiliazione e morte.

Il film nasce da un’urgenza personale: pochi mesi prima, Armin Meier, compagno e attore fassbinderiano, si era tolto la vita. Il dolore di Fassbinder, intriso di senso di colpa, si condensa in questo lavoro che, più di altri, assume il carattere di un requiem intimo, un’elaborazione del lutto mediata attraverso il racconto di un personaggio fragile e tragico. La vicenda di Elvira diventa specchio e allegoria di una condizione universale di abbandono, ma anche testimonianza di una ferita privata che Fassbinder non riesce a rimarginare.

Il titolo stesso, Un anno con tredici lune, evoca un tempo eccezionale, un’anomalia celeste che ricorre raramente: un anno in cui tredici lune piene scandiscono i giorni, simbolo di un ciclo eccedente, di un destino eccentrico e doloroso. Non si tratta di un mero riferimento astronomico, ma di una cifra simbolica che indica il disallineamento tra individuo e cosmo, tra il desiderio di essere e la durezza del reale. Elvira, nata Erwin, subisce questa dissonanza sulla propria pelle: il suo corpo è diventato campo di battaglia tra l’amore desiderato e l’indifferenza del mondo, tra la speranza di trovare un luogo d’affetto e l’impossibilità di colmarne il vuoto.

Sin dalle prime sequenze, Fassbinder ci trascina in una dimensione di spietata crudezza. L’ospedale, la clinica, il bordello, le strade notturne di Francoforte: sono spazi senza rifugio, luoghi che non offrono protezione, ma espongono le ferite della protagonista come in una galleria anatomica. Non c’è estetizzazione nel dolore di Elvira: la macchina da presa non vela, non abbellisce, non consola. Al contrario, insiste sul corpo disfatto, sulla voce tremante, sul gesto che cerca abbraccio e trova solo gelo. È come se Fassbinder avesse scelto di rinunciare a ogni possibilità di distanza estetica per offrirci un film crudo, confessionale, in cui la messa in scena coincide con la carne viva del personaggio.

Eppure, proprio in questa crudezza risiede la forza poetica del film. Un anno con tredici lune non è un melodramma nel senso tradizionale: non indulge in eccessi sentimentali né cerca la catarsi attraverso l’identificazione. Piuttosto, opera una radicale esposizione della vulnerabilità, spingendo lo spettatore non a piangere per Elvira, ma a riconoscere in lei l’immagine più nuda della condizione umana. Fassbinder usa il melodramma come un dispositivo critico, smascherando le strutture sociali ed emotive che rendono impossibile all’individuo realizzare il proprio desiderio. In questo senso, il film si iscrive nella genealogia del cinema fassbinderiano che, dai primi lavori fino a capolavori come Le lacrime amare di Petra von Kant o La paura mangia l’anima, ha sempre analizzato la dinamica distruttiva dei rapporti affettivi e di potere.

Elvira non è soltanto una donna trans respinta dall’amato; è il simbolo di tutti coloro che hanno tradotto la propria esistenza in dono d’amore, ricevendo in cambio l’indifferenza. La sua metamorfosi corporea, chirurgica, diventa parabola della condizione moderna: il corpo sacrificato per amore di un Altro che non lo riconosce, il corpo che diventa promessa tradita, materia di solitudine. Guardare Un anno con tredici lune significa confrontarsi con l’impossibilità di un riscatto, con il destino di chi non trova mai lo sguardo capace di restituirgli dignità. Ed è proprio questa impossibilità, ostinatamente messa in scena senza veli, a fare del film uno dei vertici tragici del cinema europeo del Novecento.

La cornice storica e biografica

Un anno con tredici lune, girato in poche settimane e uscito nelle sale tedesche nel 1978, è uno degli apici più intimi e dolenti della filmografia di Rainer Werner Fassbinder. La sua realizzazione va compresa all’interno di un momento biografico segnato da un dolore personale che si trasforma in gesto artistico: la morte di Armin Meier, compagno di Fassbinder, suicidatosi il 31 maggio 1978, pochi giorni dopo il compleanno del regista. Questo evento traumatico imprime al film un carattere unico, una qualità di confessione che travalica il mero racconto narrativo per farsi elaborazione del lutto e riflessione estrema sull’amore e sulla perdita.

Se i lavori precedenti di Fassbinder, pur immersi in atmosfere cupe, mantenevano una tensione dialettica tra desiderio e realtà, Un anno con tredici lune sembra abbandonare ogni possibilità di dialettica, sprofondando in una contemplazione ossessiva del dolore. Elvira non è soltanto un personaggio, ma un tramite attraverso il quale Fassbinder interroga il proprio rapporto con l’amore, con il corpo, con l’abbandono. L’empatia del regista non si manifesta con dolcezza o indulgenza, bensì con una lucidità tagliente, che rifiuta ogni illusione consolatoria. È come se Fassbinder si imponesse di guardare la ferita senza abbassare gli occhi, trasformando la cinepresa in uno specchio crudele.

Sul piano storico, il film si colloca in una Germania Ovest segnata da profonde contraddizioni: da un lato, l’avanzata del consumismo e di un capitalismo sempre più spersonalizzante; dall’altro, le tensioni politiche e sociali lasciate in eredità dal Sessantotto e dalla radicalizzazione di gruppi come la RAF. Francoforte, città in cui si svolge la vicenda, non è un semplice scenario urbano: è il cuore pulsante della finanza tedesca, emblema di un ordine economico che, mentre promette progresso, genera alienazione e marginalità. L’ambientazione non è casuale: Elvira, emarginata e rifiutata, attraversa questo spazio come un corpo estraneo, un residuo umano che non trova posto nel sistema.

La figura della donna trans in questo contesto assume una valenza politica: la sua diversità non è solo sessuale, ma sociale, economica, esistenziale. Elvira è il simbolo di un soggetto che non riesce ad adattarsi alle regole del gioco capitalistico, né a quelle del patriarcato e dell’eteronormatività. La sua condizione diventa allegoria della sconfitta di ogni forma di differenza, di ogni tentativo di vivere al di fuori dei binari imposti. In questo senso, il film di Fassbinder non è soltanto una tragedia individuale, ma un atto di denuncia verso una società che, dietro la facciata del benessere, esclude e condanna chi non rientra nei parametri dell’accettabilità.

La scelta stilistica di Fassbinder riflette questa tensione. L’uso insistito di ambienti claustrofobici, di interni asettici e di esterni urbani spersonalizzati, costruisce un universo visivo in cui la solitudine di Elvira si amplifica. L’ospedale, la clinica, i corridoi anonimi, i quartieri periferici: tutto concorre a produrre un senso di spossessamento, come se la protagonista fosse continuamente espulsa da qualsiasi luogo potenzialmente accogliente. La macchina da presa, spesso statica, osserva con spietata lentezza il volto e il corpo di Elvira, costringendo lo spettatore a sostare sul dolore senza possibilità di fuga.

È interessante notare come Fassbinder, in questo film, spinga oltre la sua riflessione sull’uso del melodramma. Se nei lavori precedenti aveva già decostruito i meccanismi del genere – soprattutto prendendo a modello Douglas Sirk e il melodramma hollywoodiano degli anni Cinquanta – qui sembra portare il melodramma al suo limite estremo, privandolo di ogni possibilità di riscatto. L’eccesso emotivo non si traduce in catarsi, ma in un accumulo insostenibile di dolore. Lo spettatore non è chiamato a piangere con la protagonista, ma a resistere di fronte a un’esposizione radicale della sofferenza. Il melodramma diventa, così, uno strumento critico, una lente per mostrare la crudeltà delle relazioni sociali e affettive.

In questo quadro, Elvira è al tempo stesso soggetto e oggetto di osservazione: soggetto perché la macchina da presa segue il suo percorso, dandole centralità assoluta; oggetto perché il suo corpo e la sua voce sono continuamente sottoposti a un processo di esposizione che la priva di protezione. Questa ambiguità riflette il doppio movimento del film: da un lato, l’intento di rendere giustizia a una figura marginale; dall’altro, la volontà di mostrarne la condizione di vittima senza abbellimenti. È questa duplicità che rende il film tanto disturbante quanto necessario: non c’è spazio per l’idealizzazione, ma solo per una verità scomoda, che continua a interpellare lo spettatore ben oltre la fine della visione.

Elvira: corpo, sacrificio, identità

Al centro di Un anno con tredici lune si colloca Elvira Weishaupt, interpretata da Volker Spengler in una performance di straordinaria intensità. La sua figura è costruita come un palinsesto di dolore, un corpo che ha assunto su di sé il peso di un amore impossibile e che, nella sua metamorfosi, si rivela fragile e indifeso. Elvira, nata Erwin, è un personaggio che ha fatto del proprio corpo un dono: si è sottoposta a un’operazione di riassegnazione di genere per amore di un uomo, Anton Saitz, che tuttavia la respinge con indifferenza. In questo gesto estremo, che trasforma il corpo in testimonianza e sacrificio, si concentra la dimensione tragica del film.

Il corpo di Elvira non è mai rappresentato come luogo di compiutezza identitaria: non è né pienamente liberazione, né definitivo riscatto. Al contrario, appare come segno di una frattura, di una speranza tradita. Fassbinder insiste sui momenti in cui il corpo di Elvira si manifesta come peso, come oggetto di derisione o di esclusione. Non c’è mai celebrazione, ma sempre esposizione della vulnerabilità. Questa rappresentazione si oppone alle narrazioni trionfali della trasformazione, scegliendo invece di mostrare la realtà nuda e dolorosa di chi si trova ai margini, senza appigli né comunità.

L’amore per Anton Saitz, ex deportato divenuto cinico speculatore edilizio, introduce una stratificazione ulteriore. Anton incarna il potere nella sua forma più algida: sopravvissuto ai campi di concentramento, ha trasformato il trauma in forza economica, in dominio sugli altri. Il contrasto tra lui ed Elvira è radicale: da un lato, la figura che ha sacrificato tutto per amore; dall’altro, colui che non ama e non può amare, intrappolato in un cinismo glaciale. La relazione mancata tra i due non è solo vicenda privata, ma rappresentazione della violenza di un sistema sociale in cui il potere non contempla la possibilità di riconoscere l’altro nella sua vulnerabilità.

È significativo che l’operazione chirurgica di Elvira avvenga a Casablanca, lontano dalla Germania: questa distanza geografica sottolinea il carattere di estraneità e di sradicamento del gesto. Non c’è ritualità comunitaria né accoglienza; c’è solo la solitudine di un viaggio compiuto per amore di un uomo che non ne avrebbe riconosciuto il senso. In questa scelta narrativa, Fassbinder mette in scena l’assurdità del sacrificio quando è compiuto per un Altro incapace di ricambiare. Elvira si è rifatta il corpo non per sé stessa, ma per un desiderio che resta unilateralmente negato. È proprio questa dinamica a produrre la sua condizione tragica: il dono non accolto si trasforma in condanna.

Dal punto di vista filmico, il corpo di Elvira è costantemente ripreso in situazioni di esposizione: nudo nella clinica, umiliato nelle strade, respinto nei contatti affettivi. La macchina da presa non concede intimità né protezione, ma insiste sullo svelamento. Questo sguardo, che a una prima visione può sembrare crudele, si rivela in realtà parte di una strategia critica: Fassbinder ci costringe a guardare ciò che la società tende a nascondere, a confrontarci con il dolore senza filtri. L’effetto non è quello di un’estetizzazione del martirio, ma di una radicale denuncia dell’indifferenza sociale.

Elvira, così, diventa il simbolo della condizione dell’individuo in una società che esige sacrifici senza offrire in cambio riconoscimento. Il suo corpo trasformato non è mai pienamente suo: appartiene al desiderio dell’altro, al giudizio sociale, allo sguardo che lo riduce a devianza. In questo senso, Un anno con tredici lune non è solo un film sulla transizione di genere, ma una riflessione universale sulla fragilità dell’identità quando è consegnata nelle mani di chi non la riconosce. Guardare Elvira significa interrogarsi sulla capacità di amare e di essere amati, sulla possibilità di vivere il proprio corpo come luogo di dignità, e non come teatro di esclusione.

La radicalità del personaggio non risiede dunque soltanto nella sua condizione trans, ma nell’essere emblema di un desiderio assoluto che non trova riscontro. La sua parabola, che culmina nel suicidio, non è il frutto di una patologia individuale, bensì la conseguenza di un sistema di rapporti che nega alla vulnerabilità il diritto di esistere. Fassbinder, attraverso Elvira, mette a nudo il paradosso di un amore che, invece di generare vita, diventa principio di distruzione. E ci consegna un film che non permette di dimenticare, perché nel corpo di Elvira si riflette, inesorabile, la condizione di chiunque abbia chiesto carezza e non l’abbia trovata.

 

 

 

 

(6 ottobre 2025)

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