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sabato, Agosto 23, 2025

Muore Jean-Luc Godard, l’uomo che ha sdoganato la figura di regista come autore

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di Giuseppe Sciarra

In tempi in cui ogni morte, anche quelle con linee d’ombra tutt’altro che trascurabili, provoca nei social la santificazione a priori del defunto – precisiamo ho massimo rispetto per la morte, un po’ meno per l’idolatria mediatica – la dipartita del grande regista francese Jean-Luc Godard, alfiere della nouvelle vague assieme a nomi come Francois Truffaut o Eric Rohmer è sicuramente motivo di lutto e tristezza per chi ama il cinema e i grandi uomini (anche se Godard, che era immenso, aveva un caratteraccio e fu accusato anche di misoginia. Sappiate che come necrologio scrivo tutto sul defunto anche cose scomode).

Parentesi: odio leggere su Facebook e Twitter frasi del tipo, “ Con Godard muore il 900!”. Mi verrebbe da rispondere e rispondo: “Era ora che morisse il 900! Non è stato un secolo solo esaltante ma anche terribile coi regimi totalitari, la bomba atomica, i campi di concentramento, la Guerra del Golfo, Chernobyl, la Guerra Fredda; comunque il passato va lasciato andare mentre il presente va vissuto e interrogato invece di bistrattarlo! Detesto vivere di rimpianti e di mitizzazioni”. Fatta questa premessa/lamentela sulle forme di esibizionismo sulle casse da morto altrui e la nostalgia per un secolo finito più di vent’anni fa e pianto con vent’anni di ritardo, direi di parlare di Godard.

Il mio incontro (non fisico) con Jean-Luc Godard: la prima volta che ho visto, “Fino all”ultimo respiro” col brutto-bello Jean-Paul Belmondo e la bella ma bella sul serio Jean Seberg fu all’università La Sapienza di Roma, ad una lezione sui linguaggi cinematografici rivoluzionari – la parola rivoluzionario d’altronde s’addice a Godard, il suo cinema fu una rivoluzione per la settima arte dell’epoca (gli anni sessanta, l’età d’oro del cinema europeo). Non avevo mai visto nulla del genere: il montaggio che si interrompeva all’improvviso infischiandosene di terminare una narrazione, le inquadrature che si soffermavano spesso su cose apparentemente insignificanti all’interno della messa in scena, i dialoghi filosofici esistenzialisti al limite del cinismo e dal forte sarcasmo e un’irresistibile musica jazz che sembrava provenire direttamente dai bar più malfamati di Parigi. Mi innamorai immediatamente di questo pazzo furioso. Fu una delle prime volte che concepii il cinema come lo concepisco da regista: una forma d’arte dove un cineasta si esprime come autore e non come mezzo di un’industria cinematografica che vuole fare intrattenimento e raccontare storie sempre allo stesso modo.

E con Godard, la nouvelle vague e il suo manifesto cinematografico venne la rivista Cahier du Cinema: quanto di più diverso e “rivoluzionario” dal cinema classico, soprattutto americano. La loro regola era infischiarsene delle regole: al diavolo la macchina fissa, vai con la macchina a mano e con i film low budget a volte con una sceneggiatura a malapena abbozzata dove si faceva leva sull’improvvisazione degli attori, benvenute anche alle contaminazioni tra più discipline (cinema, letteratura, pittura, fotografia), purché il film fosse un dialogo tra conscio e inconscio, arte e filosofia ma anche politica.

I film di Godard alla fine erano tesi e antitesi dell’esistenza umana. E lui ha anticipato le contestazioni studentesche degli sessanta col suo modo di fare cinema in risposta al cinema di un sistema patriarcale e fortemente ancorato a regole ferree che voleva i giovani di quel periodo passivi e sottomessi ai codici voluti e prestabiliti dagli adulti.

Per me il decennio di Jean-Luc Godard sono gli anni sessanta. Ammetto che poche volte mi sono avventurato a esplorare il cinema del maestro al di là di quel decennio in cui fu molto proficuo regalandoci degli autentici capolavori. Un po’ l’ho fatto per pregiudizi legati alle molte stroncature della critica cinematografica che mal mi invogliavano a vedere le sue pellicole dai settanta in poi e un po’ perché mi sembrava di essermi nutrito abbastanza di opere filosofiche come “Questa è la mia vita”, “ Agente Lemmy Caution: Missione Alphaville”, “ Una donna sposata”, “ Band à part”, “Il disprezzo”, “Il bandito delle 11”, “Due o tre cose che so di lei”, “ Un maschio e una femmina”. Volevo che Godard fosse e rimanesse quello.

Conclusione: la morte di un Godard non deve essere necessariamente un momento di rimpianto per ciò che sono stati il cinema e la nostra gioventù, ma una riflessione sul presente attuale e sul nostro futuro perché crescere vuol dire essere più consci delle battaglie sociali e umane che vogliamo (dobbiamo?) portare avanti. Vogliamo che la cultura come in passato ci elevi come esseri umani? Vogliamo avere una coscienza politica maggiore e far migliorare realmente la società occidentale impantanata in un liberismo e consumismo che la stanno stritolando? Rivediamo i film di Godard e dei grandi autori cinematografici. Facciamo studiare il cinema e il teatro, così come avviene con la letteratura, dalle scuole elementari. Diamo più spazio alla cultura in televisione. Sfatiamo il falso mito che la cultura non è piacevole e non può essere un intrattenimento intelligente. Lottiamo per fare rinascere la cultura di cui Godard è stato uno dei grandi esponenti nel 900. La gente deve innamorarsi di nuovo della cultura che è conoscenza di se stessi e di un mondo che ci appartiene ancora.
Grazie Godard e grazie a chi come te ci ricorda quanto sia fondamentale la cultura.

 

(13 settembre 2022)

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