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sabato, Luglio 27, 2024

La Zona d’Interesse. “Per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti”

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di Laura Salvioli
Questo film è uscito nelle sale il 22 febbraio è una produzione anglo-polacca inspirata all’omonimo libro di Martin Amis. Ha già vinto il gran premio della giuria a Cannes ed ha ben 5 candidature per i prossimi Oscar. Il film tratta l’inflazionato tema dell’Olocausto, tuttavia, lo analizza in un modo del tutto nuovo ed originale. I protagonisti, infatti, sono la famiglia del gerarca nazista Rudolf Höss che vive praticamente attaccata al campo di sterminio di Auschwitz. La loro bucolica e curata residenza sorge sotto i fumi dei “produttivi” camini del campo, la loro vita procede tranquilla mentre a due passi da loro si sta consumando il più grande genocidio della storia. Addirittura, il nostro Rudolf è colui che ha preso accordi con “egregi” ingegneri olandesi per installare e far funzionare a pieno regime i forni crematori in una amabile conversazione colloquiale davanti ad un caffè. E, parimenti, la sua teutonica moglie Hedwig accoglie le sue “composte” amiche nella sua maison e ridacchia parlando dei vestiti e dei gioielli confiscati agli ebrei una volta giunti nei campi. Procede tutto come se nulla fosse, la loro famiglia ariana di ben quattro figli cresce vigorosa giocando nel grande giardino che lei ha progettato e che viene concimato dalle “fertili” ceneri provenienti dai forni.
Hedwig e Rudolf stanno vivendo finalmente il loro “sogno tedesco”: una casa con giardino, serra, piscina, servitù, e se tutto questo è dovuto all’ “ammirevole” lavoro del marito poco importa. Il concetto del “coltivare il proprio orticello” è portato all’estremo in questo film, con una rappresentazione visiva che passa un concetto in modo puntuale come se fosse tagliato come un bisturi. Qualcuno ha fatto riferimento alla “banalità del male” di Hannah Arendt.

Tuttavia, quello che mi ha trasmesso il film, è, al contrario, la voglia di gridare: “Per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti.”

So bene che Arendt non voleva con il suo celebre saggio, dare giustificazioni ma, piuttosto, analizzare le irregolarità giuridiche innegabili del processo fatto ad Eichmann. Tuttavia, voleva anche affermare che l’imputato era cresciuto in un contesto in cui tutto ciò che ha fatto era assolutamente normale, inevitabile quasi. In questo film, invece, non ho percepito la voglia di “giustificare”, ma quella di farci osservare il contesto in cui questi crimini sono stati perpetrati. E la naturalezza, e allo stesso tempo la sistematicità, con cui sono stati progettati. Il male non è banale in questo film: il male è male, e lo è nel modo più doloroso possibile. E, senza svelare troppo della trama, è presente anche una parte umana che reagisce alla tragedia o che, comunque, la percepisce. Quindi, per me, c’è una vera e propria evoluzione del pensiero di Arendt.

In conclusione, posso dire, senza alcun dubbio, che sia il più bel film sul genocidio nazista che io abbia mai visto. Perché non è retorico, va dritto al punto, ed è un film dove proprio perché tutto sembra al suo posto, tutto è pacato, tutto è formalmente perfetto, fa montare una rabbia interiore che è un monito molto potente. Un monito a non girarsi dall’altra parte, a non dimenticarsi mai che il male non è mai banale e, anche se si maschera nei modi più originali, va riconosciuto e condannato.

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