32.6 C
Roma
sabato, Luglio 27, 2024

“The Living end”, riscoprendo Gregg Araki

-

di Giuseppe Sciarra
Il terzo lungometraggio di Gregg Araki “The living end” già nel titolo racchiude l’approccio al cinema “fino all’ultimo respiro” del cineasta nippo-americano, il quale come pochi ha saputo raccontare la generazione x anni novanta attraverso film duri, dal linguaggio esplicito fatto di slang di strada e scene di violenza giovanile a limite della psicosi, facendosi portavoce di una sessualità fluida e tormentata messa all’indice dall’omofobia e da chi vedeva nell’Aids “la peste gay”.

I protagonisti del film, il posato critico cinematografico Jon e l’aitante marchettaro dal fisico marmoreo, Luke, vivono una storia d’amore a breve scadenza. Entrambi hanno l’Aids.  Entrambi subiscono una doppia discriminazione dalla società civile in quanto gay e sieropositivi. Più di una volta bande omofobe o singoli teppisti capeggiano all’interno del film minacciando di morte i protagonisti (questo triste fenomeno delle ronde punitive antigay vale la pena ricordarlo perché era molto diffuso negli anni ottanta e novanta, quando il livello di omofobia in occidente era alle stelle, aizzato da paesi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna che influenzavano l’opinione pubblica mondiale contro il capro espiatorio a cui avevano scaricato la responsabilità della diffusione del virus, i gay).

Nel film di Araki però le vittime di questa incessante violenza da parte della cosiddetta società civile decidono di ribellarsi. Luke scatena tutta la sua furia omicida, diventando uno spietato serial killer dopo aver rubato una pistola a una coppia di lesbiche psicopatiche vendicandosi così di anni di soprusi subiti da un paese che non lo ama. Vedere dei parallelismi con la società odierna che ha come nuovi colpevoli gli immigrati presunti portatori di crisi economica e delinquenza nella civilissima [sic] società europea, mette come al solito in evidenza la necessità dell’essere umano di trovare qualcuno da incolpare per i propri malesseri: le minoranze in tal senso sono perfette.

Il film oltre a essere dunque un atto politico e un vaffanculo agli Stati Uniti d’America è un continuo ritorno al cinema sperimentale, basti fare caso alla casa di Jon tappezzata di poster di film di Andy Warohl o del maestro della Nouvelle Vague Jean-Luc Godard. La musica ovviamente la fa da padrona con una colonna sonora presa da tutta quella che era la musica indipendente dei primi anni novanta, tra rock, punk e dark wave (Braindead Sound Machine, KMFDM, Coil e Babyland). Memorabile la battuta di uno dei due protagonisti che dopo aver saputo di avere l’Aids esclama ironicamente, “Dovrò smettere di ascoltare i Joy Division”.

Con uno stile semplice fatto con macchina fissa e piani a due, “The living end” è soprattutto un viaggio on the road a base di droghe e sogni infranti senza una precisa destinazione. La scelta del regista di riprendere in auto i due protagonisti (un po’ Bonnie & Clyde, un po’ Thelma e Louise) sempre dai sedili dietro il conducente, mette lo spettatore nella condizione di essere un passeggero nelle loro mani e di provare in parte quello smarrimento che Jon e Luke vivono nella disperazione della loro malattia, sentenza di morte che li perseguita ma allo stesso tempo li rende liberi, poiché ormai li proietta al di là del bene e del male in quanto nel mondo dei vivi (o presunti tali) non hanno più nulla da perdere.

 

(31 dicembre 2021)

©gaiaitalia.com 2021 – diritti riservati, riproduzione vietata

 




 

 

 

 

 

 

 



POTREBBERO INTERESSARTI

Pubblicità