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domenica, Giugno 4, 2023

Le donne e il desiderio. Riparlare di Tomasz Wasilewski

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di Giuseppe Sciarra

Orso d’argento per la sceneggiatura a un festival di Berlino di qualche anno fa, il terzo lungometraggio del regista polacco Tomasz Wasilewski è un’opera d’arte e in quanto tale non è per il grande pubblico come tutto quel cinema autoriale che se ne frega di assecondare i desideri, il puro voyeurismo e le aspettative di chi va al cinema cercando degli schemi preconfezionati, dal ritmo che non deve mai essere troppo lento ai dialoghi che se sono serrati è meglio perché così non annoiano mai lo spettatore – anche se a me certe pellicole prolisse incitano a più di uno sbadiglio se non dicono nulla di sensato.

“Le donne e il desiderio” è uno di quei film che vedi nei festival e che non faranno mai grandi incassi, in quanto film autoriali con una loro identità e dei loro codici ben diversi dal cinema mainstrem – non so perché sto facendo lo spiegone di una cosa che chi ama il cinema bello sa ma scriverò questa recensione in maniera disordinata alternando ovvietà a intuizioni si spera più originali perché questo è il mood della scrittura di oggi.

Il film vede protagoniste quattro donne nella Polonia del 1990, post crollo regime sovietico (speriamo che non ritorni visti i tragici accadimenti dell’ultimo periodo, ndr.). Donne che il regime comunista ha soffocato, represso e che adesso avrebbero in teoria la possibilità di rinascere. Ma dopo anni di privazioni e di divieti, la rinascita sarà effettivamente possibile? A quanto pare no vedendo l’eroine di Wasilewski che si accontenteranno della clandestinità e di accettere la violenza, pur di amare e di vivere, come nel caso di una delle protagoniste, o che vivranno male l’incontro con l’occidente, interiorizzando i miti cinematografici e televisivi di questo nuovo mondo, in questo caso Uccelli di rovo, con la volontò di autodistruggersi in un amore impossibile per dare senso a una vita scialba – un’altra delle protagoniste con marito e figlia al seguito si infatuerà non ricambiata di un giovane parroco vivendo il suo desiderio col tormento di chi pecca e trasgredisce (più che il proprio matrimonio) le leggi e i divieti di una nazione.

La visione di Wasilewski è pessimista, terribile, cupa come la sua fotografia desaturata all’inizio della pellicola e che man mano si riapproprierà dei colori, anche se sono colori grigi, spenti, immersi in un paesaggio triste, fatto di casermoni, rigore, spettralità, un posto cimiteriale dove i vivi sono morti, defunti ancor prima di spirare a miglior vita.

Con uno stile che alterna macchina fissa a mano, campi medi e lunghi, in cui il corpo nudo è mostrato nella sua tragicità e nella sua assenza e il sesso e i sentimenti vissuti da lontano – nei rapporti di intimità vengono usati spesso totali e i protagonisti sono ben distanziati dall’obiettivo come a non volerci rendere partecipi di manifestazioni sentimentali che hanno difficoltà a concretizzarsi. Invece quando le protagoniste sono sole con se stesse e la loro disperazione, la macchina da presa è vicinissima a loro, le vediamo in drammatici primissimi piani, a volte di spalle. Anche la narrazione è bislacca e farebbe infuriare chi è assuefatto al cinema mainstream. Le vicende delle protagoniste non hanno una risoluzione e restano troncate, non c’è un finale alla loro disperazione, sembra quasi che il regista ci voglia dire che i suoi personaggi rimarranno per sempre sospesi in un limbo, quello di una dittatura che vuole tutti sullo stesso piano perché l’appagamento di se stessi è pericoloso (rischi di scoprire chi sei e al potere questo non piace).

 

(20 marzo 2022)

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