di Laura Salvioli
Il 6 febbraio è uscito nelle sale italiane questo film di Brady Corbet, cineasta classe ’88 che, nonostante la giovane età, sembra già un regista decisamente maturo. Tanto è vero che il film ha guadagnato ben dieci candidature agli Oscar e, molto probabilmente, vista la precaria situazione di “Emilia Perez”, potrebbe vincere l’ambita statuetta come miglior film. Inoltre, ha già ha vinto il Leone d’Argento alla 81ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, ed anche Miglior film drammatico, miglior regia e miglior interpretazione ai Golden Globe 2025.
Inoltre è statto premiato come Miglior film e miglior interpretazione ai New York Film Critics Circle Awards e ai Chicago Film Critics Association Awards.
Bisogna ammettere che si tratta di un film imponente, sia dal punto di vista del formato in cui è stato girato (70 mm), sia per la durata di ben 3 ore e 40. Durata che, a quanto dichiarato, ha messo in crisi persino i membri dell’Academy che hanno manifestato forte difficoltà nel vedere il film per intero. Commento che io trovo aberrante, e che dimostra che ormai abbiamo una soglia dell’attenzione bassa tutti quanti, persino gli addetti ai lavori. E, soprattutto, mi addolorano queste dichiarazioni perché il film non sembra affatto durare troppo, anzi, scorre fluido come un romanzo ben scritto, di cui divoriamo pagine e pagine senza nessuna fatica. Inoltre, per volere del regista c’è un intervallo di 15 minuti ed il film è diviso in due atti ed un epilogo, il che aiuta molto a seguire la storia. Le vicende sono liberamente tratte dal libro “La fonte meravigliosa” di Ayn Rand, volume che, inoltre, ha ispirato anche l’ultimo fil di Coppola “Megalopolis”.
Il protagonista è László Tóth, un architetto ungherese sopravvissuto all’olocausto che riesce ad approdare in America. Interpretato da un intenso Adrien Brody, che già in una delle prime scene, nella quale viene a sapere che la moglie è viva ed ha scritto al cugino, ci mostra in pochi secondi cosa vuole dire essere un attore. Con un pianto trattenuto che, proprio per questo, è ancora più disperato ed efficace. László, quando arriva a New York viene accolto da una Statua della Libertà inquadrata capovolta, che è anche la locandina scelta per il film, come una metafora di quello che poi lo aspetterà. Come a simboleggiare una libertà fasulla, che, per chi è ai margini non sarà mai una libertà vera, al massimo potrà consistere nella libertà di essere schiavi. Da New York si sposta a Philadelphia dal cugino, come dicevo, che ha un negozio di mobili e gli offre una stanza dove stare e la possibilità di lavorare con lui. László, infatti, in patria era un grande architetto che aveva progettato numerosi edifici a Budapest, ed ora è un reietto sopravvissuto alla più tremenda delle esperienze umane. Il cugino sembra accoglierlo calorosamente, come anche sua moglie: tuttavia, esattamente come l’America non si dimostrerà accogliente, così non lo saranno il cugino e la moglie. Cugino che, per integrarsi ha addirittura cambiato cognome e ha chiamato la sua azienda “Miller and sons” anche se non ha figli. Come a sottolineare che per essere veramente accettati bisogna confondersi con gli americani, dimenticando il proprio accento e le proprie origini. I due cugini lavorano insieme, e finalmente gli si presenta la grande occasione: la facoltosa famiglia Van Buren gli commissiona la creazione di una biblioteca. L’affare però non va come previsto e László finisce per diventare un eroinomane e spalatore di carbone. Tuttavia, Harrison Van Buren, l’uomo d’affari per cui aveva costruito la biblioteca, lo va a cercare per proporgli un progetto da realizzare. Gli propone di costruire un edificio che funga da chiesa, biblioteca, palestra, una specie di centro ricreativo per le persone di Doylestown (la sua città in Pennsylvania) che vuole nominare alla sua defunta madre. Inoltre, Van Buren gli propone di aiutarlo per far arrivare la moglie Erzsébet, che è bloccata in Austria, in America. Tutto, sembra, quindi procedere per il meglio, ma come si sa, la vita non è mai una strada dritta, veloce e senza imprevisti. Ovviamente, della trama non vi dico altro.
La meraviglia di quest’opera è che dà la sensazione che il film stesso sia una struttura architettonica complessa che parte dalle fondamenta, per poi aggiungere elementi sempre più visibili, come un palazzo che cresce di piano in piano. Inoltre, tanti temi vengono affrontati indirettamente, attraverso voci della radio o spot pubblicitari, come se fossero degli edifici secondari ma, in realtà l’edificio/film (esattamente come quello che costruirà László), è solo uno. Ad esempio, all’inizio vi è un comunicato delle Nazioni Unite, letto alla radio, che comunica l’assegnazione agli ebrei dei territori per creare il loro tanto agognato stato di Israele, poi, vari spot che descrivono la Pennsylvania come la locomotiva d’America. Quindi, indirettamente si parla di sionismo e di sogno americano. Due temi molto forti.
Ttuttavia, sul primo non c’è un chiaro schieramento ma uno spunto di riflessione. I personaggi coinvolti, infatti, hanno diverse visioni sulla nascita dello Stato di Israele e sull’idea di andarci a vivere. Per quanto riguarda, invece, il sogno americano, nonostante tutti sembrino accoglienti, poi si riveleranno solo il tipico “zio d’America” che aiuta economicamente solo per controllare, per avere potere, in un continuo gioco impari in cui è sempre una parte a soccombere. In conclusione, questo film ha la potenza e la grandiosità di un romanzo russo, la struttura di un palazzo mastodontico e solido ma l’anima delicata di chi vuole ancora raccontare una storia con passione. E lo fa così bene che lo spettatore per tutto il tempo è portato a pensare che László Tóth sia un personaggio reale, invece non lo è.
Come ha chiaramente spiegato la scenografa del film in una intervista, infatti, sono stati esaminati progetti di edifici non realizzati di architetti che non sono sopravvissuti all’olocausto. E sulla base di essi si sono disegnati i bozzetti, l’intera scenografia, ed è stato costruito il personaggio. Si voleva dare voce e rendere omaggio a questi geni inespressi. La storia di László, infatti, è verosimile, così verosimile e piena di dettagli, di carne, di sofferenza, di dolore e di caparbietà che per noi da oggi László Tóth è esistito veramente. Grazie alla potenza del cinema uno dei tanti talentuosi spazzati via dalla furia nazista ha avuto una seconda vita. Dove qualcuno ha distrutto, il cinema ha scelto i materiali, progettato e costruito un film/edificio grandioso che resisterà al tempo come un meraviglioso simulacro di quello che “avrebbe potuto essere”.
(12 febbraio 2025)
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